Racconto: Souvenir d'oltre confine

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Mariodm93
view post Posted on 1/7/2011, 00:12




Souvenir d'oltre confine


di LiLiTh Shadows






Odore di gigli. Fievole profumo a solleticare le narici; l'unica cosa che percepisco nel mezzo dell'oscurità, oltre alla morbidezza di una specie di imbottitura contro cui sbatto mani e piedi convulsamente. Insieme alle mie grida, appena udibili perché risuonano più come un rantolo soffocato; manca l'aria. Inizio a sentire le palpebre pesanti, così pesanti che mi viene naturale chiudere gli occhi.
Poi soltanto il buio.
E per una frazione di secondo, il tempo di un cambio di scena, nemmeno quello: incoscienza.
Quando i miei sensi tornano alla ragione, ci sono una risata cristallina, l'umido di erba bagnata sotto le mie gambe e il sorriso cortese di una bambina ad attendermi. È carina: ha lineamenti graziosi e la pelle dorata.
La mia attenzione viene subito attratta dalle farfalle colorate che le imbrigliano i capelli in due ordinati codini, castani come le sue iridi birichine. Penso che li vorrei anch'io, dei fermagli simili, se non fosse che la mia chioma ricciuta è quasi impossibile da pettinare... un po' la invidio: ha l'aspetto impeccabile di una principessina d'altri tempi. È il tipo di bambina che piace a mia madre, mentre io, per quanto lei cerchi di negarlo, assomiglio ad un goffo anatroccolo dalle penne arruffate.
«Devi perseverare nella pratica. Il talento è innato, ma la bravura la si acquisisce con costanza e disciplina. Se reputi la musica la tua passione, non arrenderti alle prime difficoltà. Devi lottare per ciò che ti sta a cuore, Aurora.»
Mi parla in modo confidenziale, come se mi conoscesse bene, mentre con grazia versa del tè nella tazza che mi ritrovo in mano, di fine porcellana decorata da fiori turchesi. Evidentemente è almeno la seconda volta che mi serve, dal momento che c'è già dell'altro liquido scuro sul fondo.
Sembriamo due bambine che giocano a fare le signore in una piacevole giornata d'estate. Non provo più quella terribile sensazione d'impotenza, ma serenità. Tutto in quella specie di giardino, in cui sono stata catapultata come per magia, vibra di pace. Il paesaggio assomiglia ad un quadro impressionista con i colori brillanti di un'immagine in HD. E io sono felice di essere lì.
Lì sono al sicuro.
Finché ad un tratto l'aria inizia a fremere. La terra, gli alberi, persino la principessina davanti a me oscillano in modo spaventoso... No, in verità sono solo io a tremare; tanto che finisco per rovesciare il tè sul vestitino candido e senza sdruciture della mia ospite, rovinandone la perfezione con un brutto alone umido proprio sul corpetto ricamato a mano.
«No, no... NO!» esclamo con voce infantile.
«Oh! Non ti devi preoccupare: è soltanto una macchia di tè, Aurora» si precipita a rassicurarmi la principessina, e per rafforzare l'affermazione mi poggia una mano sul braccio, con dolcezza. Anche il suo sguardo è comprensivo.
Ma lei non capisce. Non è per il tè né per il suo vestito, che ho paura... la sento, quella voce che mi chiama da lontano. È un bisbiglio, quasi arrivasse da un altro mondo.
«Ti prego: non voglio tornare in quel posto! Manca l'aria!» grido. La mia disperazione è palese, ma lo è altrettanto la sua risposta.
«Grazie della compagnia; non capita spesso che qualcuno si fermi a conversare amichevolmente con me. Però non puoi restare qui, Aurora. Non oggi perlomeno.»
Non sembra preoccupata per la mia sorte, soltanto spiacente, e io percepisco il tocco leggero della sua mano scivolare lungo il mio braccio nel tempo in cui vengo risucchiata via. Di nuovo nell'oscurità.
Dicono che il nostro cervello riceva migliaia di stimoli al secondo, eppure di quelle migliaia soltanto una piccola quantità raggiunge la vetta della nostra coscienza. Di quest'ultima, poi, un'altra piccolissima parte si sedimenta in profondità in qualche angolo della nostra mente, a formare i ricordi; simile ad un grande album nelle cui pagine sono conservate le istantanee più pregnanti della nostra vita, pronte ad essere riportate alla luce all'occorrenza.
Ebbene, per quanto io mi sforzassi di sfogliare le pagine del mio, sembrava esserci una specie di segnalibro permanente che mi riconduceva sempre alla stessa: odore di gigli, tenebra, e un tè alla “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Per la mia memoria cellulare, erano quelle le istantanee più pregnanti della mia esistenza.
All'età di sei anni avevo incontrato la morte per la prima volta. Ma per mia madre non era sufficiente che la incontrassi: dovevo anche baciarla.
«È una questione di tradizione» mi aveva spiegato in tono solenne arricciando il naso aristocratico; la sua tipica espressione che non ammetteva repliche...
Così, un afoso pomeriggio di un'estate della mia infanzia, venni trascinata nel mezzo di una fila in lutto nell'attesa di dare l'ultimo saluto a Lady Margheta di Chantervuss, mia nonna paterna.
Mentre paziente attendevo il mio turno, osservavo parenti e conoscenti dar sfogo ad una dignitosa dipartita fatta di singhiozzi sommessi, preghiere sussurrate e, soprattutto, baci sfuggenti sulle guance gelide della defunta. Li guardavo abbassarsi verso l'interno della cassa funebre – decorata con costosissimi intarsi d'ebano e tartaruga, si raccontavano due attempate signore davanti a noi – e non riuscivo a togliermi dalla testa due domande per me allora fondamentali: “Le tartarughe non sono una razza protetta?” e la più urgente in quel momento: “Come posso evitare di baciare un cadavere?”
So che possono sembrare pensieri insensibili data la situazione, almeno il secondo, ma io avevo visto nonna Margheta un paio di volte in tutta la mia vita. I miei genitori avevano divorziato da anni e mia madre e Margheta non erano mai andate molto d'accordo nemmeno prima, quindi tutta quella farsa mi sembrava ancora più assurda. Alla prima distrazione di mia madre mi detti alla fuga.
«Preferisco finire, io, in una bara!» mi dicevo.
In quel frangente, tra le altre cose, imparai una grande lezione di vita: bisogna stare molto attenti a ciò che si chiede, perché si potrebbe essere esauditi.
Infatti, io, quel pomeriggio afoso di un'estate della mia infanzia, in una bara ci finii per davvero. E per un soffio non ci rimasi. “Rimasi” nel senso più eterno del termine.
Mi venne la brillante idea di nascondermi in uno dei sarcofagi esposti al piano superiore delle Onoranze Funebri in cui si stava svolgendo la cerimonia, chiudendomici dentro accidentalmente.
Almeno così mi raccontarono, perché di cosa accadde tra la fuga dalla mano di mia madre e il risveglio circondata da facce più sconvolte di me... non ricordavo nulla. Se non: odore di gigli, tenebra, e un tè in compagnia di una principessina sconosciuta; le percezioni che andarono a sedimentarsi nella mia coscienza, trasformandosi in una specie di sogno-ricordo che avrebbe riempito le mie notti seguenti, per molti anni a venire.
Quelle istantanee mi avevano accompagnato durante il resto dell'infanzia e i cambiamenti dell'adolescenza, fino ad arrivare alle decisioni della gioventù. Decisioni che ne erano rimaste influenzate, facendo arricciare di disappunto il naso aristocratico di Lady Violet Dumberton ex di Chantervuss, mia madre.
Avevo ascoltato il consiglio della principessina e perseverato in quella che da sempre era la mia più grande passione: la musica, più precisamente il violino. Mi ero esercitata ogni giorno fino a farmi sanguinare le dita e venire i calli, fino a diplomarmi con onore al Royal College of Music di Londra. Evento che avrebbe fatto gioire Lady Violet, se... invece di entrare a far parte di un'importante orchestra, non avessi preferito suonare con i più scalcinati gruppi dark punk del paese.
«Il tuo è talento sprecato» era il suo commento più favorevole.
A suo parere, sprecavo il mio talento di musicista esattamente come la mia bellezza di giovane donna. Benché la crescita, e un buon parrucchiere, mi avessero reso giustizia trasformando l'anatroccolo in un cigno dalla figura attraente, io mi ostinavo a nasconderla sotto chili di mascara e un abbigliamento gotico, troppo sexy e funereo per il gusto nobile di Lady Violet.
Credo però di averle dato il colpo di grazia quando decisi di rendere pubblico il mio stato di lasciva peccatrice, convinta, andando a convivere con il proprietario del “Black Baccara”, locale in voga fra altri tipi strambi del calibro della sottoscritta.
Arthur “Crown” Brigman, in realtà, era un uomo affascinante con una laurea in lettere medioevali e un gran bell'aspetto, ma suppongo fosse difficile per Violet notarlo sotto il mascara scuro che nemmeno lui lesinava... di tutto il complesso della mia esistenza, mia madre riusciva a notare soltanto un particolare: ero ossessionata dalla morte. Era quella la vera fonte dei miei “guai”.
Aveva ragione: dacché a sei anni ero quasi soffocata in una bara, vedevo la Morte ovunque.
Ma non perché fossi ossessionata da Lei; senza farlo di proposito, era la Morte a perseguitarmi.
Chiusa in quella cassa non ero solo “quasi” soffocata... per una manciata di secondi lo ero stata del tutto. Avevo oltrepassato un confine da cui normalmente non si tornava, e mi ero portata via un souvenir: potevo vedere la terribile Mietitrice, in persona.
Era la principessina che mi aveva offerto una tazza di tè nel giardino di Alice, la Mietitrice in persona.
Anche se non si era presentata ufficialmente, non era stato difficile comprenderlo: erano bastati una serie di episodi simili conditi da una semplice deduzione logica.
All'inizio avevo dato credito al dr. Shulz, il terapista affibbiatomi da Lady Violet affinché sistemasse lo scompiglio nelle mia testa ed evitasse altri “deprecabili” scompigli nella nostra rispettabile famiglia.
Il dr. Shulz affermava che la principessina era soltanto una reazione del mio cervello al trauma subito, che era talmente profondo da farla uscire dal mio sogno ricorrente per materializzarsi, di quando in quando, anche in stato di veglia, soprattutto in presenza di stimoli ricollegabili all'accaduto.
In effetti, la spiegazione mi pareva sensata; non certo per l'interpretazione psicologica... piuttosto perché la principessina si presentava ogni volta con il medesimo aspetto, e abbigliamento. Aveva persino la stessa macchia giallognola sull'abitino stirato di fresco; il tè che le avevo rovesciato addosso.
Per cui, io, bambina goffa ma perspicace, mi chiedevo: per tutto il cioccolato del mondo! È mai possibile che la Morte non possa permettersi un vestito nuovo? O almeno una lavanderia?
Col passare del tempo, però, quella teoria perse di validità. Oltre al fatto che nessuno dei rimedi provati, ortodossi o meno, me l'avevano tolta di torno, avevo notato che appariva soltanto in specifiche occasioni: nel momento in cui un'anima abbandonava la Terra. In parole semplici: quando qualcuno tirava le cuoia.
Negli ospedali si aggirava per le stanze giusto prima che qualche allarme rosso scattasse; compariva sui luoghi di incidenti mortali; persino quando accompagnai la vicina dal veterinario per far sopprimere il suo povero gatto, la principessina era là. Be’, anche quando la stessa vicina ebbe un attacco di cuore, lei era presente.
Lei era sempre presente. Prima che i fatti avvenissero. Quindi, almeno che io non fossi una sensitiva, la mia “allucinazione” non poteva prevedere con tale esattezza chi sarebbe spirato. La teoria del dr. Shulz, e dei suoi successori, non reggeva.
La mia “allucinazione” era tangibile, ed era la Morte in persona.
E io la vedevo. Esattamente come potevo ammirare la mia immagine pallida allo specchio, il grosso drago rosso tatuato sulla schiena di Crown, i completi in tweed di mia madre... esattamente come la Morte poteva vedere me.
Onestamente non era una “persecuzione” tanto sconvolgente. In fin dei conti si trattava di sporadici incontri a distanza, così finii quasi per abituarmici. Con i suoi occhi birichini ricambiava il mio sguardo, mi sorrideva, e non mi rivolgeva la parola. Mai. Fino a quella notte.
Io e Crown stavamo tornando da un concerto. Nonostante piovesse a dirotto, la tempesta non ci preoccupava; la strada era poca e il traffico anche. Ricordo che ridevamo come bambini, ma non perché fossimo ubriachi, Arthur non beveva mai se doveva guidare; eravamo soltanto felici.
Ricordo il luccichio dei suoi occhi verdi, mentre mi chiedeva di sposarlo. Successe un attimo prima che si udisse un fragoroso boato e il nostro parabrezza andasse in frantumi.
Perdemmo il controllo dell'auto, che andò a schiantarsi contro il guardrail. Poco dopo ci fu un altro tremendo botto e un altro ancora, finché la strada divenne un'accozzaglia di fumo, lamiere, e sangue; intorno a me e sopra di me ce n'era molto.
Fu allora che lo percepii distintamente: odore di gigli, tenebra e impotenza. Ero paralizzata, dalle lamiere e dal terrore. Però non temevo per me, giacché la maggior parte del sangue non era mio: Crown aveva la testa riversa sulle mie gambe e respirava appena.
Pregai, di non vederla, anche se ritenevo improbabile di essere esaudita. Difatti, spostando leggermente lo sguardo, la scorsi riflessa nello specchietto laterale: si aggirava, con incedere calmo e inesorabile, tra i resti delle automobili dietro la nostra. A volte si fermava, si sporgeva da un finestrino, scompariva dalla mia vista per poi riapparire all'improvviso.
Chiusi gli occhi, perché l'ultima cosa che desideravo era incontrarla. Però lei era lì. Quando presi il coraggio di riaprirli di nuovo, il suo sguardo castano mi fissava, dalla parte del guidatore. Sebbene me lo aspettassi, cacciai lo stesso un urlo, che rimbombò dolorosamente in ogni cellula del mio corpo.
«Prendi solo me, ti prego...» piagnucolai con un filo di voce.
«Mi spiace: non posso, Aurora. Io e te ci rivediamo tra circa otto mesi.»
Dopodiché il mio desidero venne esaudito: la Morte se ne andò. Però questa volta fu lei a portarsi via un souvenir: l'uomo che amavo, lasciandomi sola a piangere la mia perdita. Cosa che continuai a fare nei mesi successivi.
Quando si rompe un oggetto, si trova sempre il modo di sostituirlo. Ma quando è un pezzo del tuo cuore, a perdersi?
Ho sempre pensato al mio cuore come ad una calda coperta patchwork, confezionata da esperienze vissute e persone amate. Ogni pezzo è unico. In quale modo si può, dunque, sostituirne uno, quando per qualche ragione viene a mancare?
Non si può. Si può soltanto ricucire il buco formatosi, aspettando che gli altri pezzi pian piano si adattino l'uno all'altro, fino a comporre un nuovo stato.
Così attesi, che la mia rabbia sbollisse e il mio cuore si risistemasse. Non sarebbe più stato lo stesso, tuttavia non potevo nemmeno lasciarmi abbattere, dal momento che mi accorsi di non essere sola. Crown non mi aveva lasciata del tutto.
Ero viva, giovane, e incinta. Quello era il mio nuovo stato.
«E' un miracolo che lei e il bambino siate sopravvissuti.» aveva detto il dottore del pronto soccorso.
La stessa notte dell'incidente avevo scoperto di aspettare un bambino, della cui esistenza il padre non avrebbe mai potuto gioire. Ciò che sapevo allora sulla vita e la morte non bastava a placare la mia collera, e nemmeno il dolore. Soprattutto l'angoscia.
Già, perché la principessina Morte mi aveva dato un appuntamento: all'incirca alla nascita di mio figlio. Non sarebbe venuta per me... voleva lui.
Ne ero certa. Forse per l'istinto materno che cresceva in me, lo sentivo nelle ossa.
Quindi, avevo soltanto due opzioni: rassegnarmi oppure combattere.
Che l'implacabile Mietitrice non si sconfiggeva, era cosa ovvia. Ma si trattava di mio figlio, e per lui avrei seguito nuovamente il consiglio della Morte stessa:
«Devi lottare per ciò che ti sta a cuore, Aurora.»
E così Io, Aurora di Chantervuss, dichiarai guerra alla Morte, in persona.
Siccome non potevo rivolgermi ai canali convenzionali, mi avvalsi di quelli inusuali: un esperto di tanatologia, e stregoneria, vecchio amico di Crown.
All'inizio del nono mese di gravidanza, stavamo ancora scartabellando testi incomprensibili in cerca di una scappatoia; finché un pomeriggio, mentre leggevo di un singolare rito tribale, provai una dolorosa fitta al ventre.
Mancavano due settimane: era presto, pensai con sollievo. Forse era colpa delle tisane prenatali che Violet, colpita da una premura materna inaspettata, mi faceva trangugiare a litri. Mi sorpresi, allorché guardando fuori dalla finestra la scorsi: una graziosa bambina, che vedevo soltanto io, trotterellare gioviale verso la mia casa.
Contemporaneamente udii dei rumori sospetti provenire dal piano superiore: in teoria avrei dovuto essere sola. Però sul momento non gli diedi importanza, dato che il pericolo maggiore stava arrivando dall'ingresso principale.
Era inutile scappare, eppure è proprio ciò che feci. Istintivamente mi precipitai all'uscita sul retro. Senza mai voltarmi né avere una meta precisa, mi misi a correre. Be’, correre, per quanto il mio pancione lo permettesse...
Malgrado mi dolesse tutto scoprii che la paura, e l'amore materno, avevano il medesimo effetto di un'iniezione di adrenalina dritta nel cuore.
Mi fermai solamente nel momento in cui il dolore divenne troppo intenso da sopportare. Mi infilai in un vicolo per poi scivolare lungo il muro di un edificio, priva della forza sufficiente persino per gridare.
«Non portarmi via anche mio figlio, ti supplico...» bisbigliai, appena udii un ticchettio arrestarsi vicino a me.
Non avevo bisogno di alzare lo sguardo, sapevo che quelle scarpette lucide erano le sue.
«Non vengo a portar via nessuno oggi, tanto meno tuo figlio. Al contrario, oggi vengo a dargli la vita. E a salvare la tua.»
«La vita? Non mentire, so chi sei: la Morte. Tu sei la Morte...» controbattei, in un attimo di requie dal dolore.
La principessina aggrottò un sopracciglio, sorpresa, per poi scoppiare a ridere.
«No! Io non mi chiamo Morte! Io sono: Vita, in ogni sua forma, Aurora cara.»
Quel pomeriggio imparai un'altra grande lezione: la vita e la morte non sono altro che gli infiniti punti di uno stesso cerchio.
Prima che potessi reagire mi accarezzò la pancia, sfiorandola con un respiro. Il Respiro di Vita.
Poi percepii un liquido caldo scorrermi tra le gambe; mi si erano rotte le acque. Fortunatamente un passante mi aiutò a raggiungere il più vicino ospedale.
Mentre la polizia arrestava un uomo armato che si era introdotto a casa mia per rapinarmi, io mettevo al mondo mio figlio, anzi figlia: una bambina bella e sana che chiamai Vita.
Oggi Vita compie quindici anni. Ha gli occhi verdi del padre, il naso aristocratico della nonna e una madre che continua a vedere, non più la morte, ma la vita, in ogni sua forma.

Edited by Mariodm93 - 1/8/2011, 15:11
 
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Deborah76
view post Posted on 1/7/2011, 15:23




Prima di commentare, vorrei fare una breve premessa (che per amor di uguaglianza replicherò in tutti gli altri commenti): leggerò tutti i racconti, e uno per volta li commenterò. La mia è solo un'opinione scanzonata senza pretese tecniche, nel rispetto dell'autore/autrice. Scrivere è mettere in luce un po' di noi stessi, perciò: un applauso a tutti!

Che finale! °___° Wow, non me l'aspettavo. Devo dire che a un certo punto ho cominciato a leggere con foga per arrivare al dunque. Mi è piaciuto molto questo racconto, con un po' di romanticismo, di humor e di thriller, ehehe... E poi ho un debole per "Alice nel paese delle meraviglie!"
Complimenti all'autore/autrice!
 
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Wingsangel7
view post Posted on 2/7/2011, 08:16




Davvero molto bello, questo racconto, delicato e ironico allo stesso tempo, e fa riflettere sulle certezze della vita. Bravo o brava! ^_^
 
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Daisy Dery
view post Posted on 19/7/2011, 22:12




Sono rimasta completamente spiazzata! :o:
Complimenti!
Originale e ricco di spunti di riflessione, la bambina è un personaggio superbo.
Brava autrice o autore :D
 
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Cronos79
view post Posted on 20/7/2011, 00:02




Complimenti.
questo è uno dei migliori che ho letto.
Non solo come storia ma anche per come è scritto.
 
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Nauthiz7
view post Posted on 20/7/2011, 08:28




Molto bello, delicato ed emozionante. Empatica la narrazione in prima persona. Forse sono stata colpita più dalla scrittura sapiente che dalla trama, che presenta alcuni cliché del genere un po’ prevedibili, superati però brillantemente dalla bravura dell’autore a trattarli da un punto di vista personale e coinvolgente. Un ottimo lavoro. Sarebbe stato bello che l’autore ci avesse regalato qualche riga in più sulla nascita di Vita, ma questa non è una critica, semmai un complimento alla sua capacità di trasmettere emozioni. Anche le battute della Vita stessa potrebbero essere rese più interessanti; in fondo, è un personaggio di alto calibro.

Edited by Nauthiz7 - 20/7/2011, 09:47
 
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Nonno D'acciaio
view post Posted on 24/7/2011, 11:21




PREMESSA:
Le mie critiche ai racconti vogliono essere costruttive e, se possibile, aiutare gli autori a migliorare non solo il loro scritto ma anche il loro stile. Non sono nessuno e non mi credo chissaché ma penso che un parere sincero valga più di mille opinioni false o mezze parole.

Se, relativamente alla trama, al coinvolgimento psicologico, al significato ultimo e a molti altri aspetti di contenuto, questo racconto mi è piaciuto moltissimo per la sua profondità strutturale e di significati, è anche altrettanto vero che leggendolo mi è sembrato che la narrazione sia veramente presentata male. Questo non tanto per la sua struttura tanto quanto per la sua realizzazione:
1) le virgole perdono spesso di significato: "si precipita a rassicurarmi la principessina, e per rafforzare l'affermazione mi poggia una mano sul braccio, con dolcezza" qui la subordinata è introdotta male ( la virgola va dopo la congiunzione "e"); "Preferisco finire, io, in una bara!" qual'è qui il significato della virgola?; "Infatti, io, quel pomeriggio" anche qui la prima virgola (oltre ad introdurre un soggetto superfluo che poteva essere sottointeso) è completamente inutile; "Se non: odore di gigli, tenebra, e un tè in compagnia di una principessina sconosciuta" perché qui la virgola prima della congiunzione "e"? "il mio stato di lasciva peccatrice, convinta, andando a convivere" anche qui la virgola sembra piuttosto inutile perché isola completamente quel "convinta" che tuttosommato pare un po' buttato li; "Per cui, io, bambina goffa ma perspicace, mi chiedevo:" ancora questo soggetto ripetuto e isolato dalle virgole che diventa un po' scomodo; "All'inizio del nono mese di gravidanza, stavamo ancora scartabellando testi incomprensibili in cerca di una scappatoia; finché un pomeriggio" tipico errore del neofita che separa l'introduttivo (in questo caso temporale) dal periodo principale. (un esercizio molto comune e utile è quello di rileggere ciò che si è scritto e fare una pausa di 1 secondo per le virgole e di 2 secondi per i punti. Ci si accorge che toglendo gran parte della punteggiatura superflua il testo non solo rimane più leggibile, ma anche più scorrevole.
2) troppi puntini di sospensione, nella pmaggior parte dei casi inutili, ad esempio "circondata da facce più sconvolte di me... non ricordavo nulla" qui viene separato il verbo della principale. Perché?
3) Alcune parole vengono ripetute nell'arco di poche frasi, ad esempio: scompigli.
4) E' è diverso da È (errore marginale questo)

Oltretutto c'è troppa storia in così poco narrato, forse meno carne al fuoco ma cotta meglio avrebbe avuto più sapore. Il raccconto non è niente male, un po' poco leggibile forse, però è buono.
 
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Angela1993
view post Posted on 28/7/2011, 10:24




La storia è molto bella e significativa, però c'è troppo da dire nel poco spazio concesso. Come diceva Nonno D'acciaio: troppa carne al fuoco. Sicuramente è un racconto con del potenziale, e secondo me in una forma più ampia renderebbe molto di più.
 
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7 replies since 1/7/2011, 00:12   231 views
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