Racconto: Il risveglio

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Mariodm93
view post Posted on 30/6/2011, 23:49 by: Mariodm93




Il risveglio


di Deborah Epifani






Conta.
È così che io rinasco ogni notte.
Uno. Due. Il pensiero si mette in moto da solo, come se nel cervello avessi un pendolo caricato sulla stessa ora.
Tre. Sento il battito.
Le persone tendono a credere che uno inizi da quello: un cuore che batte è indice di vita. Di solito. Io invece inizio dal pensiero: sono un tipo originale. Conta, mi dico, e poi eseguo.
I numeri e la matematica hanno sempre avuto il rassicurante sapore di casa, di sciroppo di amarene, dei passi cadenzati di mia madre mentre ballava in veranda seguendo la musica di un grammofono e del melodico borbottio di mio padre mentre faceva i suoi calcoli da chimico; ora che ho il corpo tenuto insieme da rotelle e metallo, tubicini di cuoio e piccoli mantici, avverto ancora di più quel sapore in fondo alla gola.
Quattro. Presto arriveranno i suoni, esplodendo nelle orecchie tutti insieme.
Cinque. Poi gli odori, a soffocanti ondate.
Gli odori... quando le mie narici cattureranno l’odore della pelle di Nerissa, contare sarà un supplizio, lo so, e i numeri non basteranno a calmarmi, a riportarmi a casa coi pensieri, indietro nel tempo, sotto un portico odoroso di gelsomino.
Sei. In lontananza, il fischio acuto del vapotreno mi strina i timpani. Dovrei esserci abituato: il vapotreno lascia la stazione alle 23.23 in punto per l’ultima corsa, la stessa ora in cui mi sveglio. Invece quel fischio mi coglie sempre alla sprovvista.
Esattamente come la voce eccitata del piccolo Pepe, a pochi passi da me: mi scoppia come una deflagrazione nelle orecchie. «Sta tornando, sta tornando! Fategli spazio, o ci butta di sotto!»
Avverto il gruppetto che mi sta attorno ritirarsi con reverenziale disagio: è per via della mia mole. Sì, fatevi da parte, piccoletti, o saluterete un paio di contusioni da parte mia! Peccato non poter ridere. Non ancora. L’umorismo non mi manca: fa parte di ciò che non ho scordato, di quando ero un essere umano.
Sette. Odio il sette. Adesso arriverà il peggio: l’odore di Nerissa.
Otto. Nerissa è alla mia destra, la sento. La sua pelle profuma di cannella, e di arance anche se non è la stagione.
Nove. Dio mio, aiutami... gli occhi si spalancano sulla notte. Nerissa sussulta ma non si sposta.
Dieci! Un urlo cupo di caverna mi squarcia la gola prima che possa controllarlo, le mie ali si tendono con un sibilo di telo strappato. Sto gridando, sto vivendo di nuovo! Il sangue scorre tra gli ingranaggi interni. Le vene, quelle originali, pulsano frenetiche, gli artigli neri si contraggono, le membra intorpidite si allungano, stirandosi al limite.
Sono solo dieci secondi, ma è il limbo crudele poco prima dell’inferno.
Adesso viene l’inferno.
Respira: per i prossimi dieci secondi devo concentrarmi su questo. Nerissa arriverà dopo. I polmoni bruciano come fossero bagnati dall’acido, mi sembra che in tutto il mondo non ci sia abbastanza aria, che stia soffocando, che presto morirò davvero. Eppure inspiro!
Ancora.
Di nuovo.
Respira, Gabe! Maledizione, respira!
«Gabe» mi incoraggia la voce vellutata di Nerissa. Il suo tono è calmo, delicato e imperativo allo stesso tempo. «Respira.» Lei sa cosa sto provando, anche se l’ha provata una volta sola.
Sì, respiro... lo sto facendo. Passerà... Tutto il mio corpo è scosso da fremiti e contrazioni, ogni boccata d’aria ingoiata con avidità è un terribile rantolo.
Poi, sopraggiunge la calma. Ho il corpo rigido e rattrappito, protetto dal bozzolo traslucido delle mie ali di nuovo serrate, ma non tremo più e non sento dolore.
È finita. O meglio, è iniziata: io sono quello che chiamano Gargoyle, appollaiato su un cornicione delle rovine sopra la città.
Ho una coda, lunga e appuntita. Mi serve per l’equilibrio, o almeno così mi era stato detto, perché mi porto appresso un corpo ingombrante, ora, e senza coda inciamperei continuamente nelle zampe artigliate che mi ostino a chiamare piedi. Il resto del corpo è possente, muscoloso, con la pelle coriacea simile all’ebano. Nel complesso, ricordo un troglodita privo di qualsiasi rudimento igienico; così mi definisco per ironizzare la cosa. In realtà faccio spavento. La prima volta che mi sono guardato allo specchio ho vomitato.
Ok, anche la seconda.
La terza ho evitato gli specchi.
Le mie ali sbucano tra le scapole come quelle di un drago. Sono magnifiche. Sì, l’unico extra di me davvero degno di nota, un prolungamento delle vertebre piuttosto ben riuscito. Ma non c’è magia in me, non c’è leggenda. Il mio corpo è semiartificiale, un esperimento a metà tra il biochimico e il meccanico, e le membrane delle ali sono di pelle conciata di chissà quale animale, cervo o daino, cucite direttamente sulle ossa. Mi ci sono voluti tre mesi per imparare a controllarne i movimenti: avanti e su, lieve inclinazione, spinta indietro, prendi l’aria, giù. Di nuovo, stessa storia: avanti, su, inclinazione, spinta, giù; è così che si vola. Un’esperienza inebriante.
Invece per la coda, un'altra appendice della spina dorsale, mi ci sono volute solo due ore. Sembrava che ci fossi nato, con quest’accessorio da lucertola troppo cresciuta.
Già, hanno usato una lucertola. Forse qualcos’altro ma non ricordo. Dico io, dovevano usare proprio una lucertola?
Va bene, in fin dei conti, della lucertola ho solo la coda, le estremità di tutte e dieci le dita, e un certo non so che dello sguardo; così pare, perché davanti a uno specchio non ci torno di sicuro.
Comunque ne avrei fatto volentieri a meno. Anche la lucertola avrebbe fatto volentieri a meno di me.
Stringo i pugni contro il petto: non sarà così ancora per molto.
«Gabe.» È Nerissa, l’unica a chiamarmi ancora per nome. Ora la sua voce di velluto non è più al mio fianco, ma davanti a me. Si è spostata senza il minimo fruscio: quando è a piedi scalzi, nessuno è in grado di sentirla.
Come tutti noi, anche Nerissa proviene dal Laboratorio C. Lì si compiono solo tre tipi di esperimenti: quelli che riescono al di là di ogni sensata previsione, come Nerissa, trasformata senza ausilio di bronzo e ferraglia; quelli che riescono in parte, come me, dove per mantenere in vita l’ospite umano si deve ricorrere a parti meccaniche.
E poi ci sono quelli che non riescono affatto. Quelli dove l’ospite muore.
Nerissa avrebbe preferito appartenere all’ultimo tipo, invece ora è una sorta di gatto. Tutto sommato, ha ancora le sembianze di un essere umano, una giovane, bellissima donna, minuta e flessuosa; ma il volto ricorda quello di un felino, con il naso schiacciato - un nasino delizioso - le guance piene e gli occhi color zafferano che vedono al buio; il suo corpo è interamente ricoperto da una morbida peluria ramata striata di bianco, la sua spina dorsale è snodata e le orecchie sporgono oltre una cascata di boccoli color miele, allungate e appuntite. Anche i suoi canini lo sono.
A me non dispiacciono: quando ci baciamo li sento sulla lingua e finisco quasi sempre per giocarci. Essere diversi ha il suo lato diverte! A Nerissa, però, non l’ho mai detto perché lei odia il suo nuovo aspetto. Sa bene che per me non è cambiato nulla; se mai, ora la amo di più. Eppure, questo non le basta.
Non basta mai a nessuno. Nemmeno a me.
Eravamo esseri umani, prima. Noi due avevamo sedici anni.
Il ricordo amaro mi riscuote: schiudo le ali lentamente per fare capolino sulla realtà. Nerissa è in piedi che mi aspetta. I vapori arancioni della città le si stagliano alle spalle, impedendomi di identificare l’espressione del suo volto, troppo in penombra. È tutto il resto, a essere esaltato dal contrasto: la corta lanugine delle parti scoperte brilla come un’aura, mentre dalla sagoma a clessidra capisco che indossa il suo cappotto preferito color carta da zucchero, quello con il colletto alto, le maniche a sbuffo, la vita aderente e le cuciture dorate sugli alamari. È così elegante che sembra mi stia aspettando per una cenetta romantica. Invece andiamo a trucidare persone.
Anche attraverso quel cappotto indovino il suo corpo flessuoso e ho un brivido improvviso. «Potresti restare lì per un secolo o due?» le propongo col sorriso idiota sulla faccia.
Lei ricambia, lo sento dal tono divertito. Sono altrettanto sicuro, però, che il suo sorriso sia meno ebete del mio. «Ben alzato, tesoro» scherza. A volte ci comportiamo ancora come una coppia normale.
Ci baciamo, un bacio piccolo che è il nostro abituale saluto. Stanotte, però, il sapore delle sue labbra è così dolce da far male. Vivi! sembra che mi dica.
Intorno a noi scoppiettano le risate dei piccoli. Mi volto di scatto, ruggendo come per aggredirli. I mostriciattoli si ritraggono sghignazzando ancora di più. Campanella, la più piccola, stringe la mano deforme di Sbuccia, un incrocio con un babbuino che le fa da fratello maggiore, ma non si allontana e contempla le mie ali.
Campanella aveva solo quattro anni, quando quelli del Laboratorio C l’hanno presa. Ha due ali variopinte, piccole e fragili, da farfalla. Non volerà mai, con quelle, e comprendo perché ammiri tanto le mie. I suoi ocelli composti da insetto hanno ancora le ciglia lunghe e folte di una bambina, così come, in qualche modo, lo sguardo curioso e spalancato su di me.
Maledico con tutto me stesso chi le ha fatto questo: volevano che somigliasse a una fata. Una fata vera. Invece hanno creato l’abominio dell’infanzia. Tutti noi siamo abomini. Orrori dell’arroganza umana, bramosa di dar vita alle creature delle favole e dei racconti degli scrittori.
Con me hanno voluto un gargoyle e l’hanno ottenuto: il mio pensiero si spegne all’alba, cade in un letargo senza sogni né percezioni remote grazie all’azione ciclica di un veleno, e si risveglia di notte; nulla potrebbe destarmi dal sonno. Nemmeno un coltello piantato all’improvviso nel petto.
Uno strattone alla coda mi distoglie dagli orrori e dagli occhi sibillini di Nerissa. È Sbuccia. Il lato sinistro della sua faccia è solcato da una vecchia cicatrice, ricordo di quando è fuggito dal Laboratorio. Tutti ne abbiamo almeno una. «Noi siamo pronti» avverte, gonfiando il petto con orgoglio e un’espressione grave. Campanella gli si rannicchia addosso. Anche lei sa cosa stiamo per fare.
«Sì, siamo pronti, siamo pronti!» gli fa eco il piccolo Pepe, saltellando sul posto come se il destino gli avesse riservato una notte ricca di regali. Lui è un esperimento di secondo tipo, incrociato con un pappagallo. Un pappagallo piuttosto ciarliero. Allunga un braccio meccanico dietro di sé per mostrarmi il nostro esercito.
Siamo una trentina. Esclusi i più piccoli che resteranno ad aspettarci, ventuno. Ventuno anime col petto carico di vendetta e gli occhi fissi su di me. Negli anni ho imparato a riconoscere lo sguardo di tutti, immutabile, insensibile al tempo, disumano per sempre. Quello che vedo stanotte, però, è una folla di sguardi che bruciano di speranza e futuro, brillando fulgidi nella notte più delle stelle. La luna stessa sembra sia finita in fondo a quegli occhi di belve.
Ricambio i loro sguardi, sostando a lungo su ognuno di loro. Equivale a un discorso che il mio esercito comprende meglio di qualsiasi parola.
Poi mi volto da Nerissa. Lei inclina appena la testa di lato, scrutandomi i pensieri. «È ora» conclude.
Io annuisco, accucciandomi. Nerissa sa cosa deve fare; di colpo, il suo corpo si anima di agilità: mi passa accanto, lasciando scivolare il cappotto sul cornicione, poi sento il suo fianco morbido sfiorami e un secondo dopo è sulla mia groppa, con le dita ancorate alle mie scapole sporgenti. Non pesa nulla, ma sento il suo calore pulsante di vita sulla schiena e lungo i fianchi. Un nodo mi blocca la gola: quanto vorrei evitarle la battaglia! Ma questa è anche la sua battaglia. Ne ha diritto, e comunque non riuscirei a dissuaderla, né lei lo vorrebbe: il Gargoyle e la Gatta. Sempre insieme, i primi esperimenti: per gli altri siamo capitani, paladini senza paura.
Non sanno quanto il mio cuore stia vacillando.
Soltanto Nerissa avverte il mio terrore. «Vivi» mi sussurra piano all’orecchio, sporgendosi in avanti.
«Tu non lasciarmi» ribatto sottovoce, in modo che solo lei mi senta. Nerissa si stringe ancora di più a me. Allora aggiungo: «ti amo» con la voce roca di quando sono impacciato e che a lei piace tanto.
La sua risposta mi basta. La conosco: inarca la schiena, snuda i canini e soffia alla luna, fiera e indomita. Il segnale.
Tutti quelli che possiedono ali in grado di trasportarne qualcuno in volo ci imitano, gli altri si lanciano giù dal cornicione, si lasciano scivolare dalle colonne, artigliano, saltano, scavalcano, corrono. Davanti e sotto di me l’esercito si è mosso, barcolla, striscia, grugnisce, urla lanciandosi giù dalla collina.
È il mio turno. Ho nelle pupille il riflesso aranciato della nebbia che sfuma i contorni della città. In fondo ai sobborghi nord, vicino al porto, individuo gli edifici squadrati e fatiscenti del Laboratorio C. Non me ne distaccherò nemmeno un istante.
Conta, mi dico. Così comincio. Un numero per ogni battito.
Uno. Giustizia.
Due. Non avrò pietà.
Tre. Perché non si ripeta.
Quattro. Mai più.
Cinque. Credilo possibile.
Sei. Credilo possibile.
Sette. Credilo possibile!
Non aspetto il dieci. Sollevo le scapole, dispiego le ali, mi lancio nel vuoto. Sto urlando! Non esiste nient’altro questa notte, nient’altro su questa collina, nient’altro sulla città e nel cielo, nient’altro al di fuori della mia eco di battaglia. È la mia anima a urlare al posto mio. E di quella di Nerissa. E di Campanella, di Pepe, di Sbuccia, di tutti gli altri.
Sono tornato.
Anche stanotte.
Ma questa volta è per battermi.

Edited by Mariodm93 - 1/8/2011, 15:10
 
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